Condividi l'articolo su:
  • Sommario   1. Premessa. — 2. Il Caso Di Specie E La Motivazione. — 3. Le Immissioni Sonore E Il Danno Non Patrimoniale. — 4. Il Riferimento Al Diritto Di Proprietà Ex Art. 42, Comma 2, Cost. — 5. Diritto All’abitazione: Tra Art. 8 CEDU E Ordinamento Interno. — 6. Considerazioni Conclusive.

  • 1. PREMESSA

    La sentenza delle Sezioni Unite affronta il problema del risarcimento del danno non patrimoniale da lesione del diritto al pacifico godimento della propria abitazione cagionato da immissioni intollerabili. La pronuncia a Sezioni Unite dà continuità ad un recente indirizzo del giudice di legittimità che risolve in senso affermativo la questione della risarcibilità del danno non patrimoniale, pur in assenza di un danno biologico, qualora l’attività immissiva colpisca il diritto inviolabile al godimento della propria casa di abitazione. Dopo una breve disamina della fattispecie, si analizzerà il rapporto tra l’art. 844 c.c. e il risarcimento del danno non patrimoniale. In seguito, si affronteranno le questioni più problematiche emerse dal testo della sentenza: il richiamo all’art. 42, Cost. e all’art. 8 CEDU.

    2. IL CASO DI SPECIE E LA MOTIVAZIONE

    In occasione della festa patronale di San Pantaleo, su concessione del Comune di Olbia, il Comitato per i Festeggiamenti ha installato una pedana sul suolo pubblico ad un metro di distanza dalla casa della controparte ostacolandogli di fatto l’accesso primario all’abitazione. L’utilizzo del palco per i festeggiamenti ha causato immissioni sonore in pregiudizio della vita domestica, lesione che poi si è protratta ed aggravata a causa dell’omessa rimozione della pedana che è diventata per tutto il successivo periodo estivo « base per giochi e schiamazzi della gioventù locale ».

    Gli abitanti e proprietari della casa in questione, ritenendo leso il diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane all’interno dell’abitazione, hanno citato in giudizio il Comune di Olbia ed il Comitato dei Festeggiamenti per vederli condannare al risarcimento dei danni subiti.

    Il Tribunale di prime cure (Tempio Pausania) ha rigettato la domanda. La Corte di Appello di Cagliari (Sezione distaccata di Sassari), al contrario, l’ha accolta dopo aver accertato la sussistenza della lesione dei diritti fondamentali degli attori condannando, così, il Comune a risarcire il danno. Avverso tale decisione è stato proposto ricorso in Cassazione lamentando la violazione dell’art. 2059 c.c. laddove il giudice di merito ha riconosciuto la sussistenza di danni non patrimoniali pur in assenza della lesione di un interesse costituzionalmente garantito. Non essendo stata accertata la sussistenza di un diritto inviolabile ed in assenza di un’ipotesi di reato ex art. 185 c.p. mancherebbero i presupposti per la sussistenza di tale danno. In particolare, il ricorrente ha contestato che il rilievo costituzionale dell’accesso all’abitazione e del libero godimento del proprio domicilio non sia rinvenibile — come emerge dal giudizio di gravame — nel riferimento alla « dignità umana » contenuto nell’art. 41, comma 2, il quale rimane circoscritto al solo esercizio della libertà di iniziativa economica.

    La pronuncia in commento rigetta il ricorso confermando la decisione del giudice di appello. Con riferimento alle censure del ricorrente, le Sezioni Unite riconoscono che la lesione al godimento della propria abitazione non possa essere rinvenuto nell’art. 41, comma 2, Cost., quanto, piuttosto, nel successivo art. 42, comma 2, « che tutela la proprietà e detta i limiti per la compressione del relativo diritto ». Rispetto invece all’assenza di un pregiudizio all’integrità psico-fisica documentata (danno biologico), la Corte conferma l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui, qualora venga fatto valere un pregiudizio non patrimoniale derivante dalla compromissione dello stile di vita quotidiano, il danno è risarcibile soltanto nel caso in cui risulti leso il diritto al « normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione e del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane » (1), la cui copertura costituzionale — come diritto inviolabile — trova un ulteriore rafforzamento nell’art. 8 CEDU. Tale pregiudizio può essere provato anche mediante presunzioni sulla base delle nozioni di comune esperienza e — conclude la Corte —, nel caso di specie, è dimostrato dalla « natura ed entità delle immissioni ».

    3. LE IMMISSIONI SONORE E IL DANNO NON PATRIMONIALE

    La fattispecie in esame integra una ipotesi di immissioni acustiche intollerabili disciplinata dall’art. 844 c.c. Una volta accertato il superamento della soglia di normale tollerabilità il giudice ha ritenuto sussistenti i presupposti per la condanna al risarcimento del danno non patrimoniale pur non risultando un danno biologico accertato. Prima di arrivare al cuore del problema — vale a dire quello della configurabilità di un danno non patrimoniale da immissioni diverso dal danno alla salute — occorre fare alcune premesse su come si sia evoluta la giurisprudenza in tale materia.

    L’art. 844 c.c. è originariamente ideato per tutelare la proprietà fondiaria e per comporre i conflitti nascenti da usi incompatibili di fondi vicini (2). Sin dagli anni Settanta, però, la giurisprudenza di merito (3)ha accolto la proposta di una parte della dottrina (4)per un’interpretazione estensiva del campo di applicazione della norma volta ad estendere la tutela inibitoria in tutti quei casi in cui le immissioni vadano a ledere i diritti fondamentali della persona — in primis il diritto alla salute — indipendentemente dalla titolarità di un diritto reale da parte del soggetto coinvolto. Questo indirizzo non è stato da subito recepito dalla giurisprudenza di legittimità (5)che ha preferito tenere distinte sul piano rimediale la tutela della proprietà e quella della persona (c.d. doppio binario di tutela): in presenza di immissioni intollerabili il proprietario poteva esperire l’azione inibitoria ex art. 844 c.c. a tutela del diritto di proprietà e, contestualmente, l’azione risarcitoria per il danno alla persona. Più di recente il ruolo della norma ha subìto un’ulteriore evoluzione: la tutela della salute e della qualità della vita in generale incidono — sulla base di questo indirizzo ermeneutico — sul giudizio di tollerabilità delle immissioni, imponendo al giudice di considerare prevalenti i suddetti interessi nel contemperamento che questo è chiamato a fare tra le « esigenze della produzione » e le « ragioni della proprietà » (anche indipendentemente dal criterio del preuso) (6). La riconsiderazione in chiave personalista di questa norma ha influito parzialmente anche sull’estensione della legittimazione attiva: se originariamente l’azione era esperibile soltanto dal proprietario o dal possessore-titolare di un diritto reale minore, più di recente, la giurisprudenza ha ammesso che anche chi vanta un diritto personale di godimento sul fondo possa agire per l’inibitoria ex art. 844 c.c. (7), sia pure con alcune limitazioni (8).

    Con riferimento alla tutela risarcitoria — che interessa il caso di specie — il danno non patrimoniale derivante dalle immissioni intollerabili non sembra rimanere limitato alla lesione del diritto alla salute in senso stretto. Già da tempo, la giurisprudenza di merito (9)si è posta il problema di risarcire l’ulteriore perdita inerente alla sfera esistenziale dell’individuo riconducibile ad un interesse alla preservazione della tranquillità della vita domestica. Anche in dottrina c’è chi ha sottolineato come le immissioni rumorose frequentemente alterino « le abitudini di vita e gli assetti relazionali propri della vittima con evidenti ripercussioni nell’ambito familiare, lavorativo e sociale » (10)indipendentemente da un pregiudizio all’integrità psico-fisica.

    Com’è noto, l’interpretazione adeguatrice dell’art. 2059 c.c. da parte della Suprema Corte con le sentenze gemelle del 2003 (11)e le successive puntualizzazioni delle pronunce c.d. di San Martino del 2008 (12), riconducono l’ambito operativo del danno non patrimoniale all’interno del principio di tipicità espresso dal suddetto articolo: in assenza di una fattispecie di reato, affinché il danno non patrimoniale sia risarcibile è necessario che venga leso un diritto inviolabile della persona. È interessante ricordare come proprio una delle sentenze gemelle del 2008 riguardasse una fattispecie immissiva analoga a quella in esame (13). In quell’occasione, la Suprema Corte ha negato la possibilità di risarcire un danno non patrimoniale qualora le immissioni non producano nella vittima una patologia medicalmente accertabile e provata in giudizio (14)non sussistendo — ad avviso della Corte — altro diritto inviolabile leso in grado di integrare il presupposto dell’ingiustizia costituzionalmente qualificata. Tale indirizzo se, da una parte, ha avuto il pregevole effetto di arginare l’atteggiamento estremamente disinvolto dei giudici di pace di liquidare il risarcimento in presenza di una imprecisata lesione al « diritto ad una vita serena in tutte le sue esplicazioni » (15), dall’altra, non è stato seguito in maniera uniforme dalla giurisprudenza successiva. Una parte dei giudici (16)— a dire il vero piuttosto isolata — ha ignorato i principi espressi dalle Sezioni Unite del 2008 continuando ad avvalersi del danno esistenziale come autonoma categoria di danno, in tal modo « vanificando […] il ruolo nomofilattico svolto dal Giudice di legittimità » (17); un secondo orientamento — più acriticamente rispettoso del nuovo indirizzo — ha negato la risarcibilità del danno da immissioni in assenza di un pregiudizio al bene-salute (18), senza individuare altri diritti inviolabili rilevanti; infine, una giurisprudenza più recente (19)— di cui la sentenza in commento rappresenta l’ultima autorevole conferma — ha individuato nel diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione il diritto inviolabile leso. Questo ripensamento da parte dei giudici di legittimità sembra frutto di una nuova e diversa considerazione del novero di diritti della persona il cui grado di protezione costituzionale è tale da rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 2059 c.c. Si tratta quindi di trarre dal testo della motivazione le ragioni di questo ripensamento e di vagliarne sinteticamente la coerenza argomentativa rispetto all’impianto del danno non patrimoniale eretto in questi anni.

    4. IL RIFERIMENTO AL DIRITTO DI PROPRIETÀ EX ART. 42, COMMA 2, COST.

    Nel motivare l’infondatezza del ricorso, le Sezioni Unite hanno richiamato come « referente normativo della lesione al godimento della propria abitazione » l’art 42, comma 2, Cost., che — proseguono i giudici di legittimità — « tutela la proprietà privata e detta i limiti per la compressione del relativo diritto ». L’ambiguo richiamo alla tutela costituzionale della proprietà, non accompagnato da ulteriori specificazioni, lascia il dubbio circa la sua qualificazione come diritto inviolabile.

    Rispetto al rapporto tra proprietà e danno non patrimoniale, la più importante indicazione giurisprudenziale risale alle sentenze gemelle n. 8827 e 8828 del 2003 che hanno circoscritto la protezione risarcitoria agli interessi di rilievo costituzionale non aventi natura economica. Anche le Sezioni Unite del 2008 riprendono questa formula e, nell’elencare quali siano i diritti inviolabili la cui lesione è in grado di integrare il requisito dell’ingiustizia qualificata dell’art. 2059 c.c., hanno appositamente omesso di richiamare l’art. 42 della Costituzione (20). Una parte della dottrina non ha mancato di criticare la scelta della giurisprudenza di legittimità per non aver preso una posizione più netta su una questione di così grande rilevanza applicativa (21). In effetti, l’incertezza sul ruolo che la proprietà riveste nell’ordinamento ha avuto una ripercussione nelle successive pronunce di merito: anche avvalendosi del richiamo alle fonti internazionali, una parte della giurisprudenza ha liquidato il danno non patrimoniale per lesione del diritto inviolabile di proprietà (22). Occorre precisare che si tratta di pronunce sporadiche e spesso criticate dalla stessa giurisprudenza (23).

    Prima di estendere l’area della risarcibilità dell’art. 2059 c.c. occorre interrogarsi sul ruolo che l’istituto dominicale riveste nel nostro ordinamento anche alla luce dell’influenza delle relative norme europee (24)e di diritto internazionale (25). Due accezioni affatto differenti di proprietà sembrano emergere dalla storia del costituzionalismo europeo: l’una vede la proprietà come un diritto soggettivo assoluto ed inviolabile; l’altra, al contrario, pone l’accento sul concetto di funzione sociale, collocando così l’istituto « in un contesto giuridico ordinamentale in cui gli interventi restrittivi sul diritto non possono essere considerati eccezionali e non estensibili analogicamente, ma possibili in quanto posti al di fuori della logica liberista » (26). La dottrina italiana maggioritaria (27)— insieme alla giurisprudenza — ha sempre escluso che la proprietà possa essere ricompresa nel catalogo dei diritti inviolabili, definendo piuttosto l’art. 42 come una garanzia d’istituto (28). Secondo tale ricostruzione, pur avendo un contenuto minimo garantito che la pone in un momento logicamente precedente al riconoscimento del legislatore ordinario, la proprietà non riceve a livello costituzionale una tutela illimitata. Il pregio di tale impostazione è quello di marcare una netta distinzione tra i diritti inviolabili e l’istituto dominicale senza giungere però ad una sua eccessiva svalutazione (29): mentre i primi sono garantiti in quanto fondanti la stessa idea di stato democratico, la proprietà è tutelata nel suo contenuto minimo soltanto al fine di « imprimere allo Stato di diritto una specifica fisionomia » (30). D’altra parte, l’estensione dell’inviolabilità ai diritti patrimoniali risulta essere impropria anche in considerazione della loro natura: i diritti patrimoniali in generale sono diritti singolari dominati dalla logica dell’esclusione dei terzi che mal si concilia con il carattere universale dei diritti fondamentali in senso stretto(31).

    Questo orientamento, ormai consolidato nell’ordinamento interno, rischia di entrare in crisi se si volge lo sguardo alla disciplina sovrannazionale ed in particolare alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo in cui la proprietà viene messa accanto ai diritti fondamentali. La dottrina ha spesso criticato questo accostamento considerandolo « del tutto improprio ed antistorico »(32)rispetto all’evoluzione del costituzionalismo italiano che qualifica come inviolabili soltanto i diritti della persona. Se poi si considera l’approccio estensivo con cui la Corte di Strasburgo interpreta l’ambito di applicazione dell’art. 1, Prot. 1, il rischio è quello di apporre l’etichetta dell’inviolabilità a tutto il patrimonio dell’individuo e, conseguentemente, di configurare un danno exart. 2059 c.c. per la lesione di un qualsiasi interesse patrimoniale (33).

    Per quanto le considerazioni finora richiamate paiano fondate e condivisibili, il rischio di mantenersi su un piano squisitamente assiologico è quello di perdere di vista quelle che sono le ricadute su quello della disciplina positiva della qualificazione di un diritto come « inviolabile » o « fondamentale » (34). Risultano allora particolarmente istruttive le riflessioni di quei commentatori che partendo da un confronto tra disciplina costituzionale interna e quella contenuta nell’art. 1, Prot. 1 CEDU, hanno escluso che la proprietà europea debba essere ricompresa tra i diritti inviolabili. A dispetto della collocazione e del nomen, infatti, la disciplina concreta a livello internazionale non sembra affatto dissonante rispetto a quella dell’ordinamento nazionale. Qualificare un diritto come inviolabile ha lo scopo di sottrarre al principio maggioritario la scelta circa la sua compressione da parte dell’autorità statale. Ebbene, la CEDU, al netto delle dichiarazioni di principio, si limita a giudicare sul corretto utilizzo dell’istituto dell’espropriazione per pubblica utilità e della regolamentazione statale dell’uso dei beni con il solo intento di garantire al singolo parità di trattamento e certezza nell’esercizio del potere statale (35). Affermare l’inviolabilità del diritto di proprietà dovrebbe avere come conseguenza sul piano della disciplina di negare in assoluto all’autorità statale la possibilità di privare l’individuo del suo diritto al fine di realizzare l’interesse pubblico e, quindi, risulta incompatibile con lo stesso istituto dell’espropriazione per pubblica utilità (36). In altri termini, la disciplina ex art. 1, Prot. 1 CEDU, degli istituti dell’espropriazione e della regolamentazione dell’uso dei beni non deve essere vista come l’affermazione dal carattere inviolabile del diritto di proprietà — soltanto in ragione della diversa applicazione che ne viene fatta dalla Corte di Strasburgo — ma, al contrario, costituisce un argomento per la sua esclusione.

    Alla luce di queste riflessioni, come deve essere interpretato il richiamo alla proprietà della sentenza in commento? L’obiter dictum della Corte — nella sua sinteticità ed ambiguità — potrebbe suggerire un ritorno a quella giurisprudenza di merito richiamata poc’anzi che mai in passato ha trovato seguito tra i giudici di legittimità. Invero, la sentenza avrebbe potuto costituire un’occasione importante — vista l’autorevolezza della composizione dell’organo giudicante — per chiarire una volta per tutte il rapporto tra proprietà, diritti inviolabili e danno non patrimoniale evitando così futuri ripensamenti.

    Ad avviso di chi scrive il riferimento alla proprietà non può sicuramente essere inteso nel senso di includere l’istituto nel novero dei diritti inviolabili. D’altra parte, proprio il successivo richiamo all’art. 8 CEDU (Diritto al rispetto della vita privata e familiare) piuttosto che all’art. 1, Protocollo 1 addizionale (Protezione della proprietà), sembra implicitamente confermare l’estraneità dell’istituto domenicale ai diritti inviolabili e, anzi, dà continuità all’indirizzo opposto. Non è dunque il diritto economico di proprietà in sé a venire in considerazione quanto, piuttosto, la tutela del bisogno abitativo della persona di cui il bene-casa rappresenta un mezzo indispensabile per la sua realizzazione.

    5. DIRITTO ALL’ABITAZIONE: TRA ART. 8 CEDU E ORDINAMENTO INTERNO

    Una volta abbandonata l’idea che la lesione del diritto inviolabile di proprietà possa costituire un valido argomento per risarcire il danno non patrimoniale ogni qual volta la privazione o la compressione del godimento di un bene materiale cagioni un pregiudizio sulla sfera esistenziale o morale dell’individuo, è possibile cogliere l’opportunità per una corretta individuazione dell’interesse costituzionalmente rilevante leso dall’attività immissiva. Nel caso di specie, l’indirizzo giurisprudenziale a cui la sentenza in commento ha inteso dare continuità è quello che individua nel diritto al pacifico godimento della casa di abitazione il presupposto per integrare l’ingiustizia qualificata dell’art. 2059 c.c. (37). La discontinuità con le pronunce successive alle sentenze di San Martino sembra trovare la sua ragion d’essere nel richiamo all’art. 8 CEDU (38)che, a seguito della sua « comunitarizzazione », ha visto rafforzare il proprio ruolo all’interno del nostro ordinamento.

    In effetti, sul piano dell’ordinamento CEDU, la Corte di Strasburgo ha più volte considerato la fattispecie di immissioni rumorose come una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare e del diritto alla casa (39). Si è ritenuto che, in forza dell’obbligazione positiva di garantire il « quieto godimento » della casa di abitazione, lo Stato sia tenuto a riparare i pregiudizi morali derivanti dalle attività rumorose intollerabili (40). Si tratta indubbiamente di un’interpretazione estensiva dell’ambito di applicazione della norma la quale, da presidio nei confronti delle ingerenze dell’autorità di pubblica sicurezza sulla sfera privata e familiare, acquista la funzione di soddisfare bisogni di carattere sociale come quello abitativo (41).

    Ciò premesso, indipendentemente dalla sua ampiezza, la norma disciplina i rapporti tra Stato e individui senza quindi arrivare a dare indicazioni dirette ed esplicite su come i rapporti interprivati debbano essere regolati a livello interno: un conto è dire che lo Stato debba assumersi l’obbligo positivo di impedire le attività eccessivamente dannose della sfera privata, un altro è attribuire una responsabilità in capo ad un soggetto privato in forza di una norma ideata per rappresentare un presidio dalle ingerenze statali. Il problema è, quindi, quello di capire in che termini la CEDU — e la giurisprudenza che la interpreta — debbano essere recepite dagli ordinamenti interni. Rispetto a questa delicata questione la Corte costituzionale ha da tempo chiarito che alla fonte convenzionale non debba attribuirsi la stessa efficacia delle fonti comunitarie (efficacia diretta) ma piuttosto quella della c.d. norma interposta; da ciò consegue che « al giudice comune spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme » (42).

    Alla luce di queste riflessioni è possibile affermare che la Corte di cassazione con la sentenza in commento si sia correttamente avvalsa del parametro CEDU utilizzandolo come argomento di riconoscimento del diritto inviolabile piuttosto che attribuendogli un’efficacia diretta nel nostro ordinamento.

    Semmai, è rispetto all’accertamento nel caso concreto di un danno non patrimoniale risarcibile che si possono sollevare alcuni rilievi critici. Se, infatti, da una parte, la Convenzione può costituire un utile strumento per arricchire il catalogo di diritti inviolabili garantiti (43), dall’altra, c’è il rischio di un’eccessiva moltiplicazione degli interessi costituzionalmente rilevanti per l’applicazione dell’art. 2059 c.c. con la conseguenza di vanificare la direttiva che la Suprema Corte ha voluto dare con le sentenze del 2008. In altri termini, una volta esclusa la risarcibilità ex sedei pregiudizi alla « tranquillità domestica » o alla « qualità della vita » — non assurgendo questi al rango di diritti inviolabili — il richiamo ad una nozione lata e non opportunamente circoscritta di rispetto della vita privata e familiare rischia di riproporre, in forme e con argomenti diversi, il medesimo criticabile risultato.

    Invero, il nostro ordinamento, al netto delle norme di diritto internazionale, ha già nel suo patrimonio costituzionale un’alta considerazione del valore dell’abitazione e dei riflessi che l’effettivo godimento della stessa ha sulla piena esplicazione della personalità umana (44). Sebbene non sia esplicitamente riconosciuto dalla nostra Carta costituzionale, la giurisprudenza ha ormai da tempo affermato la vigenza del diritto all’abitazione come « diritto sociale fondamentale » (45)nonché « inviolabile » (46). Se il carattere sociale del diritto serve a distinguerlo sul piano strutturale dalle tradizionali libertà in quanto riconosce le pretese positive dell’individuo nei confronti dello Stato, quello dell’inviolabilità gli conferisce una « posizione privilegiata nel bilanciamento con altri valori costituzionali » (47). Que sti due attributi si riflettono, così, sull’individuazione di una pluralità di interessi meritevoli di tutela che ruotano attorno alla nozione di diritto all’abitare: l’interesse ad accedere al bene-casa, quello ad un godimento pieno idoneo a soddisfare i bisogni della persona, nonché, l’interesse ad una soddisfazione stabile dell’abitazione(48).

    Questa premessa appare fondamentale per comprendere quale tipo di interesse venga colpito dalla condotta immissiva e come la giurisprudenza, con queste recenti pronunce, riconsideri il diritto alla casa in relazione alla disciplina del danno non patrimoniale.

    In effetti, rispetto alla lesione del diritto all’abitazione, fino ad oggi la giurisprudenza si è sempre limitata a liquidare il danno non patrimoniale qualora la condotta fosse stata idonea ad incidere sulla stabilità del godimento abitativo, vale a dire quando il fatto illecito fosse risultato tale da costringere l’abitante ad abbandonare per un apprezzabile periodo di tempo la propria dimora(49). Con la sentenza in commento, dal risarcimento del danno per privazione assoluta del godimento della casa si passa a tutelare l’interesse al suo pieno godimento e, quindi, a risarcire il danno qualora l’attività immissiva renda qualitativamente deteriore la vita all’interno della propria dimora. L’appiglio argomentativo fornito dall’art. 8 CEDU ha, dunque, l’effetto di espandere l’ambito oggettivo del diritto inviolabile all’abitazione fino a ricomprendervi lesioni che erano lasciate prive di tutela risarcitoria dalla giurisprudenza precedente (50).

    Così ricostruito, il percorso giurisprudenziale tracciato dalla Suprema Corte appare coerente con l’impostazione sistematica di fondo. Il problema diventa piuttosto quello di confrontarsi con il requisito della serietà dell’offesa richiamato dalla Suprema Corte nel 2008 (51)e di individuare la soglia minima di offensività necessaria affinché in concreto il diritto inviolabile sia coinvolto nella lesione. Il rischio, in altri termini, è prendere in considerazione tutti i disagi minimi e inconsistenti derivanti dall’attività rumorosa e di dare così seguito a pretese idiosincratiche immeritevoli di tutela risarcitoria. Né la risarcibilità deve dipendere esclusivamente dalla sussistenza di un pregiudizio esistenziale indipendentemente dalla lesione ad un interesse giuridicamente rilevante, perché questo significa non soltanto reintrodurre surrettiziamente la categoria del danno esistenziale ma anche far dipendere il risarcimento del danno dal grado di sopportazione e tolleranza del singolo e non da un criterio oggettivo (52).

    A ciò si aggiunge il rischio ulteriore di presumere leso il diritto all’abitazione ogni qual volta l’immissione sia giudicata come intollerabile alla luce dell’art. 844 c.c. senza poi accertare in concreto se il diverso presupposto della soglia minima di tolleranza richiamato dalle Sezioni Unite del 2008 venga in considerazione. Invero, nonostante le omonimie, i due criteri non devono essere sovrapposti: da una parte, l’art. 844 c.c. serve ad identificare le condotte immissive illecite mentre, dall’altra, il bilanciamento tra solidarietà e tolleranza — invocato dalla Corte di cassazione(53)— serve ad apprezzare la « dannosità delle stesse sul piano non patrimoniale » (54).

    Se però la serietà dell’offesa non costituisce un criterio aggiuntivo all’accertamento sull’inviolabilità dell’interesse ma, al contrario, come autorevole dottrina ha rilevato (55), una verifica del « peso in concreto del diritto coinvolto », il compito principale del giudice è quello di valutare nel caso concreto se l’offesa non sia talmente irrisoria da ledere soltanto interessi non considerati rilevanti ai fini della tutela risarcitoria. In altri termini, se si esclude la risarcibilità del danno ad un generico diritto alla qualità della vita ma, diversamente, si ammette che esista quello al rispetto del pieno godimento dell’abitazione, lo sforzo del giudice deve consistere nel definire in concreto lo scarto che intercorre tra questo immaginario diritto e quello costituzionalmente garantito. Una simile operazione non può che essere fatta in concreto, perché solo in relazione all’offesa è possibile stabilire quando la condotta illecita impedisca il pieno soddisfacimento del bisogno abitativo e non sia tale da produrre semplici disagi e fastidi che devono restare privi di tutela risarcitoria.

    Da questo punto di vista, è possibile riscontrare una eccessiva generosità della giurisprudenza in esame rispetto alla valutazione di serietà (rectius rilevanza non irrisoria (56)) delle lesioni derivanti da immissioni di rumore. Nel caso di specie il giudice ha ritenuto sufficiente ai fini della condanna, la sottoposizione del danneggiato al rumore per un periodo di tempo relativamente breve (il periodo estivo) salvo poi adottare, come contrappeso, una quantificazione del risarcimento, in via equitativa, di modesto ammontare (57).

    6. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

    Dalla pronuncia in commento possono essere colti utili spunti di riflessione sulla tutela del diritto all’abitazione. Rispetto al suo rapporto con il diritto di proprietà, è possibile constatare come il bisogno abitativo attragga a sé una molteplicità di interessi che l’istituto dominicale non è in grado di riassorbire al suo interno. L’interesse ad accedere ad una casa nonché quello di goderne in modo pieno e stabile trovano oggi un riconoscimento costituzionale nel nostro ordinamento completamente sganciato — e a tratti anche confliggente — con la tutela del diritto di proprietà. Proprio il superamento della giurisprudenza incline a proteggere il godimento dell’abitazione tramite l’affermazione dell’inviolabilità del diritto di proprietà consente di ampliare l’ambito soggettivo della tutela. Come già è avvenuto per la tutela del diritto alla salute in relazione alle immissioni, il risarcimento del danno non patrimoniale da lesione del godimento dell’abitazione non dipenderà più dal titolo di appartenenza del bene (58): se il fatto dell’abitare viene in considerazione indipendentemente dall’essere o meno proprietario, ciò porta ad interrogarsi sulla possibilità di far valere tale diritto anche in assenza di un titolo che legittimi l’occupazione della propria abitazione.

    Rispetto invece all’individuazione dell’interesse idoneo ad integrare il presupposto dell’ingiustizia qualificata, affinché di diritto all’abitazione si tratti e non di un mero interesse alla vita tranquilla — espressione dell’intolleranza ai meri disagi e fastidi che ogni individuo è tenuto a sopportare in ossequio al principio generale di tolleranza invocato dalla Corte di cassazione nel 2008 — è opportuno che la giurisprudenza si faccia carico di descrivere più puntualmente il contenuto di questo diritto e, più in particolare, in che termini la turbativa posta in essere dall’attività immissiva sia tale da intaccare il nucleo inviolabile dell’interesse al pieno godimento della propria casa.

Avv. Emanuele Doria on FacebookAvv. Emanuele Doria on GoogleAvv. Emanuele Doria on InstagramAvv. Emanuele Doria on Linkedin
Avv. Emanuele Doria
Avv. Emanuele Doria
Avvocato
Avvocato. Laurea in Giurisprudenza presso l’Università La Sapienza di Roma. Scrive online su aggiornamenti e novità giurisprudenziali. Svolge assistenza e consulenza legale in materia di Diritto Civile, Diritto del Lavoro, Responsabilità ed Errore medico, Assicurazioni e Risarcimento Danni, Diritto di Famiglia (Separazioni, Divorzi), Recupero Crediti nella provincia di Frosinone, Fori di Cassino, Frosinone e Roma.
Ha maturato una particolare esperienza in materia di Risarcimento danni da incidenti stradali gravi e mortali nonchè in materia di Diritto Sanitario, Risarcimento danni per Malasanità ed Errore medico. Tutela le vittime di sinistri stradali, nonchè le vittime di malasanità, curando in prima persona i rapporti con le compagnie di assicurazione. Chiama per un appuntamento: +39 3288321751

Per offrirti un'esperienza di navigazione in linea con le tue preferenze, utilizziamo cookies, anche di terze parti. Chiudendo questo banner o proseguendo nella navigazione acconsenti al loro impiego in conformità alla nostra Privacy e Cookies policy.

The cookie settings on this website are set to "allow cookies" to give you the best browsing experience possible. If you continue to use this website without changing your cookie settings or you click "Accept" below then you are consenting to this.

Close