Sommario: 1. Premessa: il caso. 2. Il danno non patrimoniale e la valutazione unitaria. 3. La valutazione equitativa ed il principio di integrale riparazione del danno. 4. Conclusioni.
*****
1.PREMESSA: il caso.
La sentenza attiene al ricorso per cassazione avverso la pronuncia del 25.10.2011 della Corte d’Appello di Firenze che, in parziale accoglimento del gravame proposto dalle Generali ass.ni s.p.a., ed in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Livorno n. 416/2011, ha dichiarato la concorrente responsabilità del sig. P.R. e del sig. B.R. (in misura rispettivamente del 15% e del 85%) nella verificazione del sinistro stradale per cui è causa, allorchè alla guida dei rispettivi veicoli quest’ultimo non ottemperava all’obbligo di dare la precedenza al primo, il quale peraltro non aveva rispettato il limite di velocità e non aveva adottato la necessaria prudenza nell’attraversamento dell’incrocio.
2. Il danno non patrimoniale e la valutazione unitaria.
La statuizione offre l’opportunità di dar conto dell’evoluzione della giurisprudenza su di una disciplina, quella del danno non patrimoniale, la cui analisi non può che trovare principio dal dato codicistico dell’art. 2059 (“Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi previsti dalla legge”) e, ai nostri fini, dal decisivo allargamento dei confini previsti dal sistema limitativo della suddetta norma, il quale ha raggiunto il traguardo probabilmente definitivo con le sentenze cosiddette “gemelle” della S.C. del maggio 2003 (Cass. 31.05.2003 nn. 8827 e 8828).
La pronuncia n. 8828, il cui testo viene ripreso integralmente dalla n. 8827, fissa nello specifico due punti centrali nella disciplina.
La prima questione riguarda la “latitudine” da attribuire al concetto di danno non patrimoniale quale categoria di riferimento per l’applicazione dell’art. 2059 c.c., e la S.C. osserva che “la tradizionale restrittiva lettura dell’art. 2059, in relazione all’art. 185 c.p., come diretto ad assicurare tutela soltanto al danno morale soggettivo, alla sofferenza contingente, al turbamento dell’animo transeunte determinati da fatto illecito integrante reato (interpretazione fondata sui lavori preparatori del codice del 1942), non può essere ulteriormente condivisa. Nel vigente assetto dell’ordinamento, nel quale assume posizione preminente la Costituzione – che, all’art. 2, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo – il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente la persona”.
La seconda questione inerisce invece l’ampiezza del concetto di danno non patrimoniale, su cui la Cassazione abbandona la lettura restrittiva dell’art. 2059 c.c. quale norma diretta ad assicurare la riparazione esclusivamente “al danno morale soggettivo, alla sofferenza contingente, al turbamento dell’animo transeunte determinati da fatto illecito integrante reato”.
Il danno non patrimoniale viene ora inteso “come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona”, e ciò sia per l’espansione dei casi di ristoro di esso legislativamente previsti, sia sulla scorta evolutiva della giurisprudenza.
La Cassazione giunge ad elaborare un concetto di danno non patrimoniale tale da ricomprendere ogni conseguenza negativa non suscettibile di valutazione economica, che sia conseguenza della lesione di un interesse inerente alla persona.
Va detto che, in tale fase, poco convincenti rispetto alle successive indicazioni, risultano i passaggi della sentenza in cui i Giudici di Legittimità rinunciano a ritagliare specifiche voci di danno all’interno della nozione generale di danno non patrimoniale, probabilmente dietro il dichiarato intento di evitare, tramite una liquidazione unitaria, il rischio di procedere a duplicazioni risarcitorie.
Il suggello a tale mutamento di prospettiva lanciato dalla Cassazione viene poi offerto dalla pronuncia della Corte Costituzionale di soli due mesi dopo: la n. 233 dell’11.07.2003.
Con essa la Consulta si uniforma alla S.C. sulla scorta dei cambiamenti di carattere generale che hanno investito la materia attraverso la previsione legislativa di nuovi casi di risarcibilità del danno non patrimoniale estranei alla materia penale, sia tramite il riconoscimento da parte della giurisprudenza del ristoro (al di fuori dell’art. 2059 c.c.) dei danni non patrimoniali derivanti dalla lesione di interessi costituzionalmente garantiti.
Ristoro, sostiene la Consulta, estendibile anche alle ipotesi in cui il fatto illecito non risulti concretamente punibile sul piano penale – la tradizionale lettura restrittiva dell’art. 2059 c.c. era invece legata all’art. 185 del c.p. del 1930, che offriva tutela solo se il fatto illecito integrasse reato -, giocando peraltro un ruolo determinante l’art. 75 c.p. il quale ammette la possibilità di giudicati contrastanti, agli effetti penali e civili, visto e considerato che stabilisce la parità delle giurisdizioni.
In tale mutata prospettiva, si giunge infine alla pronuncia n. 26972 del 11.11.2008 con cui la S.C., se da un lato afferma di volersi uniformare alle conclusioni del 2003, dall’altro fornisce una serie di precisazioni tali da introdurre un restringimento dei margini di tutela rispetto a quanto stabilito 5 anni prima, innalzando argini più intensi a fronte della temuta ondata di richieste risarcitorie che si ritiene possa essere alimentata dalla presenza del danno esistenziale nel sistema.
Le SS.UU., invero, giungono a postulare la valutazione di carattere unitario del danno non patrimoniale. “Il danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c., identificandosi con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, costituisce categoria unitaria non suscettibile di suddivisione in sottocategorie. Il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno. E’compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore – uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione”.
Pertanto, ciò che le sentenze gemelle del 2003 rappresentavano come un’opportunità, nel 2008 diviene un’imprescindibile necessità che si manifesta come lo strumento per evitare duplicazioni risarcitorie.
Strumento che la dottrina (Scognamiglio, 2010) considera “…l’antidoto più efficace avverso il rischio della duplicazione, se non dell’autentica babele di voci di danno non patrimoniale risarcibili, che la frammentazione dei titoli risarcitori era invece destinata, inevitabilmente, a determinare”.
D’altro canto, una volta assodata la necessità di evitare duplicazioni, il ricorso alla valutazione unitaria del danno non patrimoniale potrebbe non assicurare tale obiettivo bensì il suo opposto atteso che, limitandosi ad allegare perdite non patrimoniali genericamente individuate, mancherebbe ogni vaglio di contenuto quanto alle ripercussioni non economiche subite.
Ed il Giudice non avrà alcun punto di riferimento nella gestione delle “perdite” allegate, all’interno delle quali il medesimo aspetto pregiudicato potrebbe essere sussunto entro una varietà di formule descrittive, ciascuna delle quali presa in considerazione per incrementare il risarcimento liquidato.
Viceversa, attraverso la distinzione tra le varie componenti del danno non patrimoniale si può evitare la moltiplicazione dei danni: “il rischio di duplicazioni risarcitorie può essere evitato soltanto attraverso la costruzione di un solido impianto teorico, attraverso il quale definire quale sia il contenuto del danno non patrimoniale, e quali tipi di pregiudizio esso definisca” (Rossetti, 2010).
La dottrina osserva dunque che, nella fase di liquidazione del danno, distinguere tra le varie componenti permette la verifica della congruità del risarcimento accertando che la determinazione dello stesso sia avvenuta tenendo conto di tutti i profili (voci) di danno.
Difatti, ove il Giudice stabilisse unicamente una voce onnicomprensiva, non sarebbe possibile conoscere il peso quantitativo attribuito ai differenti profili e, pertanto, valutare la congruità della liquidazione rispetto alle varie compromissioni patite dal danneggiato, imponendosi dunque, in assenza di tanto, il ritorno all’equità pura che renderebbe imprevedibile la misura del risarcimento.
L’imprevedibilità della misura della liquidazione finirebbe per impedire anche le soluzioni di carattere transattivo, di fatto provocando l’aumento della litigiosità.
La regola della valutazione unitaria sancita dalle Sezioni Unite, assume funzione assorbente: secondo i Giudici di Legittimità, al fine di evitare duplicazioni risarcitorie, si afferma la necessità di ristorare, appunto in funzione assorbente, una sola voce di pregiudizio, determinandosi duplicazione ad esempio in caso di congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale o del danno morale e di quello da perdita del rapporto parentale.
Esemplificando il concetto si porta all’attenzione la pronuncia n. 19517 del 14.09.2010 della S.C., che ha rigettato le istanze proposte dai congiunti i quali avevano agito per ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale subito dal familiare a causa della lesione (da infortunio sul lavoro) e lamentavano l’inadeguato esercizio del potere equitativo oltre che l’assenza di motivazione in ordine alla liquidazione del danno morale.
La Corte ritiene però corretta la liquidazione operata dai Giudici di merito, per aver essi quantificato il danno tenendo conto “…delle circostanze oggettive e soggettive del caso concreto considerate, ed in particolare del danno alla sfera sessuale conseguita all’infortunio, fonte di sconvolgimento delle abitudini di vita in relazione all’esigenza di provvedere ai maturati gravi bisogni del familiare, nonché della corrispondente diminuzione del contributo relazionale e di sostegno che a sua volta il familiare può offrire agli altri”.
Ma, un conto è risarcire una somma per le sofferenze emotive cagionate dall’evento, altro è considerare i risvolti che la lesione determina sul piano della propria organizzazione di vita. Trattasi di due compromissioni distinte, non sovrapponibili, pur essendo identici i presupposti considerati.
3. La valutazione equitativa ed il principio di riparazione integrale del danno.
Il problema di tradurre in termini monetari un’entità (il danno non patrimoniale) che non può essere stimata sulla scorta di criteri economici è stato risolto affidando tale incombente al Giudice, cui spetta l’applicazione di una valutazione avente carattere equitativo.
Essa appare usualmente fondata sull’applicazione concreta dell’art. 1226 c.c. – “Se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal Giudice con valutazione equitativa” -, in ordine al quale, favorevolmente, la dottrina ha rilevato che “la valutazione equitativa, per definizione, non serve soltanto a soddisfare l’esigenza di riparazione integrale, anche se questo può essere considerato il campo di elezione della norma, ma funge da criterio di stima e valutazione del danno in ogni ipotesi in cui questo sia, anche per sua natura, inestimabile” (Cricenti, 2006).
Essa attiene alla quantificazione del danno e non già all’individuazione, atteso che non può surrogare il mancato assolvimento dell’onere probatorio ma è subordinata alla dimostrata esistenza di un danno risarcibile certo ed alla circostanza dell’impossibilità o estrema difficoltà di prova nel suo preciso ammontare.
L’equo apprezzamento non è sindacabile in sede di legittimità purchè non sia inficiato da errori logici e giuridici, nel senso che il Magistrato è tenuto a fornire congrue ragioni del procedimento logico attraverso il quale è pervenuto a giudicare proporzionata una certa misura del risarcimento, indicando gli elementi a tal fine valorizzati (S.C. 20.10.1998 n. 10405), il che non sta a significare dover fornire elencazione particolareggiata di ciascuno degli elementi in base a cui ha tratto la propria decisione, essendo all’uopo sufficiente dimostrare di aver tenuto presenti tutti i dati di fatto acquisiti al processo (S.C. 11.02.1987 n. 1499).
“La valutazione equitativa del danno, in quanto inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimazione, è suscettibile di rilievi in sede di legittimità, sotto il profilo della motivazione, solo se difetti totalmente la giustificazione che quella statuizione sorregge, o macroscopicamente si discosti dai dati di comune esperienza, o sia radicalmente contraddittoria” (Cass. 19.05.2010 n. 12318).
Nel procedimento di determinazione, secondo equità, della somma dovuta, il Giudice deve uniformarsi al principio di riparazione integrale del danno sulla scorta di quanto stabilito dalle SS.UU. nel 2008: “Il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre”.
Sul punto gli interpreti segnalano d’altra parte che “…l’impossibilità di ragguagliare il compendio risarcibile ad un valore aprioristicamente certo, il decisum, giudiziale, quale che esso sia, potrebbe sempre e comunque esser ritenuto inadeguato e inferiore rispetto ad una soglia, quella dell’integrale riparazione appunto, a sua volta modulabile secondo la diversa percezione soggettiva – e non oggettiva – di chi ne invochi il rispetto” (Hazan 2009).
A fondamento del principio enunciato dalle SS.UU. vi è quindi la necessità di tener conto, ai fini risarcitori, di tutte le compromissioni non economiche scaturite dalla lesione, evitando di dare per scontati pregiudizi che non si sono verificati, e dunque in buona sostanza prendendo in considerazione l’intero ventaglio delle ripercussioni provocate dal torto.
Una volta prese in considerazione tutte le compromissioni, non può essere prefigurata in partenza una somma esattamente corrispondente all’entità del pregiudizio subito, sfuggendo l’operazione di traduzione monetaria ad un preciso calcolo matematico.
Ed è per questo che, poiché la valutazione equitativa porta a quantificazioni variabili, sarebbe più opportuno affermare che il risarcimento deve risultare non già integrale, o meglio integrale nel senso di congruo in relazione al danno effettivamente subito. Non dovrà perciò trattarsi di una somma esorbitante né troppo esigua: “il principio secondo cui il risarcimento deve coprire tutto il danno e nulla più del danno impone che la liquidazione del danno non patrimoniale sia “equa”: che essa, cioè, né si riduca ad una somma di denaro che, anche secondo la scienza comune, appaia irrisoria rispetto alla gravità del pregiudizio; né, per converso, ammonti a cifre astronomiche per modesti inconvenienti” (Rossetti, 2010).
Per essere congruo, il ristoro deve tendere, in considerazione della particolarità del caso concreto e della reale entità del danno, alla maggiore approssimazione possibile all’integrale risarcimento.
Altrimenti, come sostenuto dalla S.C. con la pronuncia n. 15102 del 25.10.2002, la liquidazione approderebbe “ad un mero simulacro di risarcimento” poiché mancherebbe in tal caso la ragionevole correlazione tra gravità effettiva del danno ed ammontare del risarcimento (Cassazione n. 4671 del 21.05.1996).
L’obiettivo del Giudice è dunque quello di determinare secondo equità una somma di denaro atta a risarcire integralmente, o meglio in maniera ritenuta congrua dalla coscienza sociale/comune sentire, il pregiudizio subito dalla vittima, dovendo tale somma rispecchiare sul piano economico il depauperamento patito nella propria sfera personale.
Si innesta nella dissertazione la questione della valutazione della realtà socio – economica della vittima, in ordine a cui la Cassazione aveva affermato (sentenza n. 1637 del 14.02.2000) che “non è errato ritenere che, nella determinazione equitativa della somma volta al risarcimento del danno morale subiettivo, debba tenersi conto anche della realtà socio – economica in cui vive il danneggiato. Posto, invero, che in tal caso il risarcimento ha funzione meramente surrogante e compensativa delle sofferenze indotte dal fatto illecito costituente reato, se l’entità delle soddisfazioni compensative ritraibili dalle disponibilità di una somma di danaro è diversa a seconda dell’area nella quale il denaro è destinato ad essere speso, non l’entità delle soddisfazioni deve variare, ma la quantità di danaro necessaria a procurarle”.
Tale indirizzo, secondo il quale il risarcimento del danno non patrimoniale avrebbe carattere compensativo, è respinto da quella giurisprudenza secondo cui “la funzione del risarcimento ha natura pacificamente satisfattiva e non compensativa: l’esigenza solidaristica dell’ordinamento impone di accordare alla vittima un beneficio economico a fronte di un danno di per se incommensurabile, atto a pregiudicare diritti non ponderabili secondo parametri di riferimento obiettivi, tanto meno di mercato e come tal non ristorabile per equivalente…La funzione satisfattiva del risarcimento del danno corrisponde ad una destinazione del risarcimento volta a rimediare in funzione solidaristica, in assenza di diversi strumenti atti a soddisfare la vittima dell’interesse leso, con un bene disomogeneo, il pregiudizio a carattere non patrimoniale subito dalla vittima. In tali ipotesi, il denaro e la quantificazione che di esso viene fatta nel commisurare il danno liquidato in sentenza, rileva ex se ed a prescindere dall’uso che la vittima ne possa fare.
Legare l’entità del risarcimento ad esempio al costo della vita del luogo di residenza del danneggiato condurrebbe, inevitabilmente, alla strumentale migrazione ante causam dei danneggiati nei luoghi di residenza che consentono loro di conseguire un risarcimento maggiore di quello riconoscibile alla stregua del tenore di vita del luogo di verificazione del sinistro. E così, ad esempio, con riferimento al settore di impresa che viene in rilievo nel caso di specie, si incentiverebbe l’imprenditore ad assumere esclusivamente lavoratori stranieri con familiari residenti in paesi a basso reddito, al fine di ridurre il rischio di impresa derivante dalle lesioni subite in corso di rapporto dai dipendenti” (Tribunale di Trento 3.11.2009).
Più in generale, concludendo sul punto, il modo in cui il danneggiato intenda impiegare la somma ricevuta non assume alcun rilievo, in quanto la liquidazione di un importo determinato svolge unicamente la funzione di tradurre, sul piano patrimoniale, una perdita non economica.
A parità di compromissione identica dovrà essere la relativa valutazione, ragion per cui l’integralità (o congruità) del risarcimento andrà valutata confrontandola con il trattamento generalmente riconosciuto alle vittime di danni non patrimoniali dello stesso genere.
La dottrina osserva che “il problema che socialmente si avverte non è l’esattezza dell’operazione di traduzione in danaro della sofferenza psichica o di altro pregiudizio immateriale, bensì l’individuazione di criteri di giudizio omogenei che offrano certezza alle parti e diminuiscano la discrezionalità del singolo giudice” (Rizzieri, 2010).
Ed è la valutazione equitativa lo strumento volto ad assicurare l’omogeneità del trattamento risarcitorio in tema di danno non patrimoniale: esemplare la pronuncia della Cassazione n. 12408 del 07.07.2011.
La S.C. ribadisce anzitutto il principio per cui la liquidazione equitativa del danno si ritiene sufficientemente motivata quando il giudice dia indicazione di congrue, anche se sommarie, ragioni del processo logico seguito, e che essa è censurabile se sia stato liquidato un importo simbolico o non correlato alla effettiva natura od entità del danno; o quando nella sentenza di merito non si dia conto del criterio utilizzato, o la relativa valutazione risulti incongrua rispetto al caso concreto, o la determinazione del danno sia palesemente sproporzionata per difetto o per eccesso.
I Giudici di legittimità proseguono quindi nell’elencazione di alcune delle numerose norme del codice in cui ricorre il concetto di equità: si è già detto dell’art. 1226 c.c., quindi, tra le altre, l’art. 1374 c.c. (equità inclusa tra le fonti di integrazione del contratto), l’art. 1450 c.c. (riduzione ad equità del contratto per evitarne la rescissione), l’art. 1467 ult. co. c.c. (riduzione ad equità del contratto risolubile per eccessiva onerosità sopravvenuta), gli artt. 2045 e 2047 c.c. (che attribuiscono alla vittima di illeciti causati in stato di necessità o dall’incapace il diritto ad un’equa indennità).
Dalle previsioni normative richiamate “…scaturisce un concetto di equità che racchiude in se due caratteristiche. La prima è l’essere essa uno strumento di adattamento della legge al caso concreto. La norma giuridica, in quanto astratta, non può mai prevedere tutte le ipotesi concretamente verificabili: il che si designa con la tradizionale affermazione secondo la quale l’equità sarebbe la regola del caso concreto, individuata non attraverso un’interpretazione o estrapolazione del testo della legge, ma dello spirito di quest’ultima, inteso quale regola di adeguatezza della fattispecie astratta al caso sub iudice. Essa ha anche la funzione di garantire l’intima coerenza dell’ordinamento, assicurando che casi uguali non siano trattati in modo diseguale, o viceversa; sotto questo profilo l’equità vale ad eliminare le disparità di trattamento e le ingiustizie. Alla nozionee di equità è quindi consustanziale non solo l’idea di adeguatezza, ma anche quella di proporzione.
Così intesa, l’equità costituisce strumento di eguaglianza, attuativo del precetto di cui all’art. 3 Cost., perché consente di trattare i casi dissimili in modo dissimile, ed i casi analoghi in modo analogo, in quanto tutti ricadenti sotto la disciplina della medesima norma o dello stesso principio.
Ciò è tanto più vero quando, come nel caso del danno non patrimoniale, ontologicamente difetti, per la diversità dell’interesse leso (ad esempio, la salute o l’integrità morale) e lo strumento compensativo (il denaro), la possibilità di sicura commisurazione della liquidazione al pregiudizio reddituale subito dal danneggiato; e tuttavia i diritti lesi si presentino uguali per tutti, sicchè solo un’uniformità pecuniaria di base può valere ad assicurare una tendenziale uguaglianza di trattamento, ad un tempo sintomo e garanzia dell’adeguatezza della regola equitativa applicata nel singolo caso, salva la flessibilità imposta dalla considerazione del particolare”.
4. Conclusioni.
In virtù dell’excursus giurisprudenziale analizzato, lo scrivente considera fondamentale e per certi versi decisivo, nell’evoluzione della disciplina del risarcimento del danno non patrimoniale, il contributo fornito tanto dalle sentenze “gemelle” della S.C. del 2003 che dalla pronuncia della Corte Costituzionale sempre del 2003.
Invero, i principi affermati nelle richiamate statuizioni hanno permesso di creare un solco profondo con le interpretazioni ed applicazioni del concetto di danno non patrimoniale fino a quel momento offerte, rappresentando l’inizio di una nuova era applicativa del ristoro di tale voce di danno.
E’singolare, a parere di chi commenta, che mai fino al 2003 si è posto l’accento sulla preminenza dell’art. 2 della Costituzione nel nuovo assetto dell’ordinamento, rimanendo per altro verso ancorati ad un’interpretazione restrittiva dell’art. 2059 c.c., in relazione all’art. 185 c.p.
Il contributo fornito dalla S.C. e dalla Consulta lo si può ritenere decisivo nell’ampliamento del concetto di danno non patrimoniale, che diviene una categoria comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona.
La valutazione complessivamente positiva dell’impatto dei principi richiamati all’interno del sistema risarcitorio non può, d’altro canto, permettere che passi inosservato un fattore altrettanto importante, che impedisce la piena condivisione dell’operato dei Giudici di Legittimità.
Invero, la Cassazione nel 2003 rinuncia a ritagliare specifiche voci di danno all’interno della nozione generale di danno non patrimoniale, ciò costituendo un limite, per certi versi, all’impianto innovativo ed evolutivo del concetto statuito.
Limite, si è detto in commento, derivante dall’intento di evitare, tramite la liquidazione unitaria, duplicazioni risarcitorie.
Per quanto poi concerne l’intervento del 2008 ad opera delle S.S.U.U., considerata dagli operatori del diritto al pari di una pietra miliare sull’argomento che ci occupa, lo scrivente valuta che il limite delle pronunce del 2003 diviene nel 2008 uno dei principi cardine dell’impianto della Cassazione.
E’del tutto evidente che la valutazione di carattere unitario del danno non patrimoniale operata dalle S.S.U.U., se da un lato evita duplicazioni risarcitorie, dall’altro, in assenza di specifiche voci di danno, affida integralmente al Magistrato il peso di individuare tutte le ripercussioni negative del danneggiato e di tradurle in unica voce di ristoro.
Si ritiene, invece, che proprio la predisposizione di un sistema solido, costituito dalla previsione di ogni singola voce di danno risarcibile, sia lo strumento più idoneo da offrire al Magistrato per la soluzione del caso concreto.
L’unitarietà, viceversa, può certamente privare l’operatore del diritto di ogni punto di riferimento nella gestione del caso, ben potendo proprio in tale ultima ipotesi determinarsi duplicazione risarcitoria.
Tanto più se si considera che la traduzione monetaria del danno non patrimoniale deve avvenire, come detto, con l’applicazione di una valutazione avente carattere equitativo.
La gestione del risarcimento presenta dunque nel nostro ordinamento un secondo profilo di difficoltà applicativa.
Visto e considerato che, in applicazione del principio di equità, il Magistrato, oltre a dover tenere conto di tutte le compromissioni non economiche derivanti dalla lesione, deve tradurle in danaro utilizzando il criterio di equità che può portare a quantificazioni variabili, non esaustive pur considerando che il ristoro deve essere integrale, nel senso di congruo.
E che l’equità, alla luce soprattutto dei parametri offerti da Cassazione 12408/2011 deve essere strumento di adattamento della legge alla fattispecie concreta e di garanzia dell’intima coerenza dell’ordinamento.